Conosco perfettamente i limiti del processo produttivo da one man band... non è come suonare...
Io sono abituato, dopo anni, a una troupe di una decina di persone ma talvolta capita di restare in 3 o 4 sul set e anche il semplice spostare una luce da un posto all'altro diventa faticoso e dispersivo come tempi...
Purtroppo (anche se io dico per fortuna, perché amo il lavoro di squadra) il cinema è un'opera collettiva...
In Kubrick (che adoro) e Tarkovsky (che apprezzo) c'è una costruzione dell'immagine imbarazzante per almeno il 90% dei registi degli ultimi 20 anni... hanno realizzato, soprattutto il primo (anche per maggiore varietà di generi), veri e propri monumenti della 7ª arte che ancora oggi sono giustamente presi a modello... altri tempi, altri autori... mi bastano i 2 minuti d'apertura di 'Arancia Meccanica' a ricordarmi perché al cinema non vado più spesso come un tempo...
Marker realizzò qualcosa che definirei... una sciarada!!! Un po' Welles, un po' Bava sopperì con la sperimentazione la mancanza di budget... il tempo d'allora e d'oggi gli ha dato ragione... ma è pur sempre una sciarada... esperimento unico e irripetibile, una piccola scintilla di genio che appicca l'incendio dell'arte d'arrangiarsi... arte concettuale a 24fps...
Concordo in toto sul fatto che il cinema nella sua fase produttiva sia sempre e comunque un lavoro corale in grado di raggiungere le sue vette espressive solo quando tutti gli elementi dell'orchestra siano capaci di seguire la guida del direttore conservando ciascuno l'identità performativa del proprio strumento (anche se, per contrasto, mi risuona in mente quel che Hitchcock diceva della preproduzione di un film, l'unico aspetto che lo entusiasmasse dato che dopo aver terminato la sceneggiatura e aver impostato tutte le inquadrature nello storyboard, andare sul set per girare fosse il momento più noioso, ma si tratta, appunto, di un'altra epoca e di un altro pensiero filmico).
Prima e dopo Marker situerei, per intensità allucinatoria e decostruttiva, il primo Bunuel di "un chien andalou" e "L'age d'or" e il Lynch di "The alphabet" e "The Grandmother".
Senza, ripeto, la presunzione di voler equiparare la mia personale ricerca a quella che ha animato gli autori fin qui menzionati, credo perlomeno di aver finora preservato in tutte le mie opere una mia "cifra ipervisiva" che anche "NoMen", nella sua eterodossia egolatrica, contribuisce a riconfermare nella sue ambizioni più che nei suoi limiti.
Grazie di nuovo per il tuo contributo e buon lavoro.